Data

07 febbraio 2018

Quali sono le sfide che una scuola di Design affronta nel contesto attuale? Luca De Biase (Comitato Scientifico IED) definisce la complessità del mondo contemporaneo e propone l’esercizio del design come chiave per progettare un futuro intelligente e sostenibile.

Quali sono le sfide che una scuola di Design affronta nel contesto attuale? Luca De Biase (Comitato Scientifico IED) definisce la complessità del mondo contemporaneo e propone l’esercizio del design come chiave per progettare un futuro intelligente e sostenibile.

Tra i compiti di una scuola c’è anche quello di formulare la prospettiva in base alla quale si costruisce un rapporto tra ciò che gli studenti apprendono oggi e la conoscenza della quale gli umani del futuro avranno bisogno, per consentire alla società e all’economia di affrontare le sfide che si preparano per l’avvenire. Una scuola di design affronta questo compito da un’angolazione particolare: poiché insegna l’arte di progettare, cioè il processo culturale che porta a modificare le condizioni di costruzione del futuro, è costretta a ridisegnare quella prospettiva nel momento stesso in cui la implementa.

La cultura di una scuola di design è dunque pervasa dall’esigenza di un’iperconsapevolezza circa le conseguenze di quanto insegna, che si accompagna all’esperienza pragmatica tipica di mestieri creativi che non si riconoscono se non nel momento in cui si esprimono attraverso le loro opere. Ebbene: il problema del lavoro del futuro, reso complesso dall’incessante innovazione tecnologica e organizzativa che spinge rapidamente verso l’obsolescenza una quantità di mestieri e di saperi radicati, si risolve probabilmente proprio attraverso un salto culturale fondamentale, che porti alla sintesi delle competenze tecniche e delle sensibilità umanistiche. Ne consegue che un programma di formazione al design può essere pensato proprio come l’incarnazione di una prospettiva che serve ad attraversare la trasformazione del contesto economico sulla scorta di una sintesi di capacità specialistiche e strategiche: in modo che le hard skills richieste dalle tecniche di produzione siano vissute all’insegna delle soft skills umanistiche necessarie per navigare nel cambiamento, dal senso critico all’autonomia di giudizio, dalla capacità di fare gioco di squadra alla creatività. In questo senso la cultura di progetto è anche una cultura dello scenario.

Niente di più sfidante, attualmente. La velocità del cambiamento ha messo a dura prova le discipline orientate alle previsioni economiche e sociali. La scenaristica è ormai soprattutto il riconoscimento delle forme narrative più adatte a dare un senso ai fatti più dirompenti che si manifestano nel mondo attuale. Con questo approccio, chi studia il sistema economico emergente dalla grande trasformazione tecnologica e dalla globalizzazione vede scenari carichi di rischi e opportunità inedite. L’intelligenza artificiale, la robotica, la sensoristica, la produzione additiva, le piattaforme digitali stanno cambiando le condizioni di produzione, valorizzando le organizzazioni che sanno connettere in modo efficiente l’offerta alla domanda, creando le condizioni per una radicale “personalizzazione” dei prodotti e dei servizi connessi. Intanto, i materiali originati dalla nanotecnologia e i processi attivati dalla biotecnologia, assieme alla possibilità di arricchire qualunque oggetto con elettronica connessa in Rete sempre più potente e sempre meno costosa, costituiscono altrettante strutture abilitanti per un’innovazione di prodotto più profonda. Indubbiamente, per interpretare tutto questo occorre una forte cultura del progetto, capace di tenere insieme l’azienda e il suo contesto di fornitori, clienti e competitori, orientata al lungo termine e non certo limitata alla creazione di specifiche soluzioni momentanee. Non per nulla il design sembra chiamato ad allargare il suo raggio d’azione a territori molto più ampi di quelli nei quali si era confinato in passato. Ma per riuscirci – o almeno tentare – deve dotarsi di conoscenze sulle frontiere dell’innovazione citate e sulle altre emergenti in questa contemporaneità che sembra capace di generare incessantemente fatti che spostano i limiti del possibile: dalla meccanica quantistica alla fisica delle particelle, dall’intelligenza collettiva alle criptovalute, e così via. Se tutto questo sfida molti mestieri tradizionali e rischia di sostituirli con operazioni automatiche delle macchine, nello stesso tempo rivaluta il senso e la responsabilità del design. Ogni studio sul lavoro del futuro prende in considerazione la possibilità della disoccupazione tecnologica immaginata da John Maynard Keynes, anche se poi le varie scuole di studiosi tendono a dividersi tra i più e i meno pessimisti.

Il consenso attualmente sembra essersi concentrato sull’ipotesi formulata dal gruppo di Stefano Scarpetta all’OCSE, secondo il quale un 10% di mestieri è destinato a scomparire nel giro di un decennio e un 30% a cambiare profondamente. I mestieri a rischio sono chiaramente quelli più ripetitivi e il cui risultato è meno prevedibile. Evidentemente, coltivare la creatività è un grande antidoto contro la fine del lavoro. Ma è chiaro che la creatività non è appannaggio di certi mestieri per diritto acquisito: va coltivata e dimostrata ogni giorno perché possa essere riconosciuta. Senza l’incontro tra chi propone un’idea nuova e chi la adotta non c’è una vera creazione. La creatività è un carattere plurale, che esiste nella relazione unica che si forma nel momento in cui qualcuno vede qualcosa che gli altri non vedono e la realizza, svelandola in una forma tale da consentire a tutti di riconoscerne il valore. In quel senso, la forma è sostanza e il progetto è narrazione. Come sostengono all’Institute for the Future: “La prima legge degli studi sul futuro è chiara: non esistono fatti del futuro, solo narrazioni”. Quindi solo progetti. Espliciti o impliciti.

Emerge una responsabilità enorme per una scuola di Design. Il futuro è la conseguenza delle azioni compiute nel passato, con la – sempre parziale – correzione di quello che si fa nel presente. Ma come avviene quella correzione? Daniel Kahneman, psicologo premiato con il Nobel per l’economia, mostra che il ragionamento controllato è usato in una minoranza delle scelte degli umani: l’intuizione, invece, guida la maggior parte delle azioni, che quindi sono operate in assenza di una vera decisione razionale, sulla scorta dell’opzione più immediatamente disponibile. Da un certo punto di vista, le azioni sono per lo più “automatiche”, nel senso che non sono consapevolmente scelte in relazione a un’analisi razionale delle alternative, ma sono compiute come ovvia reazione alle circostanze. In questi casi, le azioni umane possono essere sostituite da azioni disumane. Il che significa, in qualche caso, da azioni compiute da macchine alle quali nessuno ha pensato di conferire un senso. Non è un futuro lontano: è l’esperienza che gli umani hanno già compiuto e le cui conseguenze si possono osservare nel cambiamento climatico, nella polarizzazione della ricchezza, nella distanza crescente tra le popolazioni informate e quelle che non accedono alle sorgenti della conoscenza. Il Design, alla fine, diventa la disciplina che si occupa di cercare e sperimentare il possibile anche quando non si vede, la ricerca del senso nella combinazione di tecnologie e modelli di business, per produrre oggetti e servizi adottabili in una prospettiva di sostenibilità. Si tratta di intervenire consapevolmente su quanto giunge dal passato per modificare la traiettoria storica e abilitare gli umani a costruire un futuro più intelligente per loro e per il pianeta.

Autore: Luca De Biase

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